martedì 8 luglio 2008

strade vecchie e strade nuove

Caro Gianluca, cari tutti,

rispondo nella convinzione, già espressa altrove, che la questione sollevata in realtà non sia formulata in termini corretti e, così com’è formulata, investa una molteplicità di questioni, tutte complesse e diverse tra loro, che occorre quindi distinguere. Ci provo.

A mio avviso, la questione non è tanto l’astratta legittimità del principio di autodeterminazione nazionale quale criterio fondativo delle entità statuali (salvo ammettere tutta una serie di eccezioni laddove i rapporti di forza non consentano l’esplicazione di questo principio), quanto la comprensione storica dei molteplici e complessi significati della costruzione degli Stati nazionali e del nazionalismo in Europa e le loro implicazioni politiche attuali. In via preliminare, ritengo che la filosofia politica non offra l’approccio adeguato alla comprensione della questione in tutta la sua complessità, che è anzitutto complessità storica, ossia necessità di articolare una questione specifica in diversi contesti storici. Di qui la perplessità sul tipo di classificazione – a mio avviso astratta e semplificante – che è proposta: in particolare il punto 2 mi sembra fonte di ambiguità irrisolte e al contempo cruciali per la nostra questione.

Il punto 1 esprime una posizione cosmopolita discendente dalla cultura illuminista che non può che rappresentare un ideale regolativo per il singolo individuo. Questa posizione, in generale, mi pare l’unica accettabile da un punto di vista etico per il singolo individuo: tuttavia, essendo fondata sul primato della cultura individuale, costituisce non un diritto, ma un privilegio (in questo senso, non democratico). In realtà, credo che sia più legittimo, per noi, definirci europei che cittadini del mondo: infatti, rispetto al mondo degli illuministi, il nostro mondo è diventato ben più vasto e articolato. Definirsi europei, dal mio punto di vista, non significa costruire una identità astratta e omogenea, statica ed esclusiva, ma riconoscere la varietà e la complessità della storia europea, che racchiude identità molteplici e stratificate, contraddittorie e relazionali (e spesso conflittuali): questo riconoscimento, che è la condizione di possibilità per un confronto con l’altro, che non si traduca in negazione di sé, è il fondamento di quella forma di etnocentrismo critico già teorizzata da Ernesto De Martino.

Il punto 3, invece, esprime la posizione classica del diritto internazionale, fondamento della Carta dell’Onu, per cui la forza politica che controlla il territorio di uno Stato va intesa come il rappresentante legittimo di quello Stato, a patto che ne garantisca sovranità e indipendenza. Oltre a questo principio (politico e non giuridico) che consente il riconoscimento dei governi esistenti, sovrani e indipendenti, la carta dell’Onu sancisce il principio di autodeterminazione dei popoli, fin dall’art. 1, par. 2. Tuttavia, sul concetto di popolo e sui suoi criteri di definizione (ad es. interno ed esterno), sulle condizioni di realizzabilità di questo principio ( possibilità di costituire uno stato sovrano e indipendente) e sui modi in cui interagisce con altri principi (come quello di integrità territoriale degli altri Stati) il dibattito tra i giuristi continua ad essere aperto e complesso: non ho però le competenze per seguirlo nel dettaglio.

Ora, torniamo, o meglio, avviciniamoci, invece, al punto 2. Che cosa si intende con quella che tu definisci “madrepatria”? Preliminare a questa discussione è anzitutto la distinzione teorica tra Stato moderno e Stato nazionale: nel caso dello Stato moderno, vale la definizione weberiana di potere fondato sulla rivendicazione del monopolio della violenza legittima; nel caso dello Stato nazionale, vale un principio di legittimità diverso e complementare al primo, che è l’aspirazione dello Stato a rappresentare la comunità nazionale e che si è tentato di realizzare (con esiti alterni e differenziati) attraverso gli strumenti della scuola pubblica (e, in una seconda fase, dei mezzi di comunicazione di massa come radio e televisione) e della coscrizione obbligatoria. Lo Stato moderno di diritto fonda una comunità di cittadini, che si riconoscono nella legge: da questo punto di vista, la cittadinanza è basata sul comune riconoscimento della legge, a prescindere dalle appartenenze etniche, religiose, culturali ecc… Lo Stato nazionale, che è organicamente legato al principio di sovranità popolare, invece pretende di fondare una comunità nazionale, che si immagina omogenea sotto il profilo etnico, religioso, culturale ecc. Mentre il primo concetto è inclusivo (è lo ius soli), il secondo è esclusivo (ius sanguinis). Tuttavia, tutto questo è vero soltanto dal punto di vista concettuale: infatti, gli Stati nazionali, nella loro concreta operatività storica, si sono mossi in forma contraddittoria, intrecciando i due concetti, nella definizione del criterio di cittadinanza. Questa è la contraddizione fondamentale e irrisolta di cui è stata matrice la Rivoluzione francese, racchiusa nella tensione tra la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (con la conseguente aspirazione all’esportazione della democrazia) e la proclamazione del primo Stato nazionale (con la conseguente nascita del nazionalismo): su tutto questo Hannah Arendt ha scritto pagine insuperate.

Ora proviamo a mettere meglio a fuoco che cosa è la nazione, di cui si possono dare una definizione essenzialistica (o etnicista) o una definizione costruttivista (o culturalista). Quest’ultima posizione, o meglio l’insieme delle posizioni riconducibili a questa definizione, tende ormai ad essere dominante in sede storiografica (non di rado in forme estremiste, per cui la nazione si riduce ad una pura e semplice invenzione). A mio avviso, è storicamente fondata una posizione che sia in grado di conciliare l’elemento politico costruttivo (direi addirittura rivoluzionario) della nazione con le diversità sociali e culturali concretamente determinate (e, sia pur in misura variabile, preesistenti), su cui le élites politiche hanno lavorato per costituire nuovi Stati. I processi di costruzione dello Stato nazionale tra XIX e XX secolo sono stati quanto mai complessi e diversificati di contesto in contesto; sono stati condotti da élites politiche che hanno trovato nel vocabolario e nel progetto politico fondato sulla nazione un nuovo e potente principio di legittimazione; si sono svolti in contesti in cui il grado di omogeneità culturale, la natura delle istituzioni politiche preesistenti, lo stadio di sviluppo socio-economico erano altamente differenziati. E’ indubbio che la Francia è stata il laboratorio del primo vero e proprio Stato nazionale moderno: il suo esempio ha ispirato le élites politiche otto-novecentesche in tutta Europa. Tuttavia, l’esportazione o affermazione di questo modello politico, basato sull’aspirazione all’omogeneità culturale, nei territori imperiali plurilinguistici e multireligiosi dell’Europa centro-orientale, in particolare dopo la Prima guerra mondiale, generò una catena di tensioni destabilizzanti, che rappresentò un moltiplicatore dei conflitti, almeno fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Non è possibile ovviamente ripercorrere nel dettaglio tutte quelle vicende, ma non si possono dimenticare per inquadrare quanto è avvenuto nell’ex-Jugoslavia negli anni Novanta.

Occorre, inoltre, tener presente che il senso di appartenenza nazionale in Europa occidentale ha subito profonde metamorfosi, a partire dal trauma della Seconda guerra mondiale. Il nazionalismo più aperto e aggressivo, che era stato identificato come l’origine delle esperienze fascista e nazista, fu ufficialmente bandito nel dopoguerra (per quanto sia sopravvissuto in forme meno palesi e più latenti). L’adesione emotiva alla nazione e il suo nesso organico con la coscrizione obbligatoria si sono progressivamente allentati, in un quadro se non di pace, di non guerra. Inoltre, lo Stato nazionale, perduta la volontà di essere strumento di espansione militare, è diventato erogatore di servizi e garanzie sociali che hanno costruito un nuovo senso di cittadinanza, non più basato sull’immagine (che risale alla rivoluzione francese) della nazione in armi: non a caso, l’attuale crisi della sovranità statuale è legata a doppio filo alla crisi del Welfare State. Infine, l’avvio e lo sviluppo del processo di integrazione europea ha aperto la strada ad una diversa possibilità di configurazione dei rapporti tra Stati in Europa, rispetto alla rivendicazione di una sovranità nazionale assoluta (nonostante le sue ostinate resistenze, che definiscono una nuova e più sottile forma di nazionalismo), e ad una nuova prospettiva di definizione di cittadinanza, concorrenziale rispetto a quella esclusivamente nazionale (su questa ad esempio si basa il trattato di Schengen).
La parola “Europa” ed il riferimento al processo di integrazione europea NON compaiono una volta nel tuo testo! E’ invece proprio questo nuovo livello del processo politico europeo che consente di individuare il carattere anacronistico delle politiche di carattere esclusivamente nazionale (ad esempio sull’immigrazione, questione che tenderà ad assumere un ruolo sempre più centrale nella società europea). Più in generale, il diritto all’autodeterminazione nazionale in Europa tende a farsi sempre più anacronistico, nel momento in cui è in corso un processo che, ancorché lento, faticoso e contraddittorio, tende a superare la sovranità nazionale stessa.

Indubbiamente, diverse sono state le traiettorie storiche dei paesi che si trovavano al di là della cortina di ferro. Concordo sul fatto che la soluzione ideale per l’ex-Jugoslavia (così come per l’Urss) sarebbe stata una forma di federazione democratica che conciliasse le esigenze dell’unità con il riconoscimento delle diversità, che contenesse le spinte disgregative e che impedisse tanto la diffusione dei nazionalismi quanto lo spargimento di sangue. In Urss, si è avuta la diffusione dei nazionalismi, ma non lo spargimento di sangue (salvo rare, ma significative eccezioni nel Caucaso, come il conflitto tra la Georgia e l’Abkhazia, quello tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, la Cecenia): questo forse perché, come recita un vecchio adagio marxiano, la storia una prima volta è tragedia, una seconda volta è commedia e l’Urss la tragedia l’aveva già ben conosciuta. O, più precisamente, per una serie di ragioni storiche che non è questa l’occasione per ripercorrere, ma che vanno dal ruolo di Gorbacev e Eltsin alla volontà degli Stati Uniti di tenere sotto controllo una vasta area con un potenziale atomico devastante, fino alla possibilità di contenere su scala strettamente locale le conflittualità che emergevano dallo disfacimento dello Stato sovietico e delle sue strutture federali. Invece, l’ex-Jugoslavia ha conosciuto la tragedia, proprio nel senso di un viluppo tra contraddizioni insolubili che derivavano dalla crisi della Jugoslavia post-titina e che credo fossero difficilmente governabili fin dal 1991-92 sotto la spinta di nazionalismi sempre più violenti. La responsabilità nello scoppio del conflitto e nel suo proseguimento va attribuita, secondo me, principalmente alla Serbia di Milosevic. Tuttavia, non si può dimenticare la concorrente e concomitante spinta all’estremismo nazionalista da parte di tutti gli attori in campo (soprattutto da parte della Croazia). Inoltre, va tenuto presente che, sulla base di scelte più o meno deliberate, vi sono sempre aree geopolitiche che vengono a configurarsi come lungo di confronto e di contesa tra gli interessi delle grandi potenze: i Balcani negli anni Novanta sono stati anche il teatro di “una guerra civile larvata” in cui si misurarono i rapporti di forza internazionali (qualcosa di simile alla Spagna degli anni Trenta). Infine, occorre ricordare che la complessità di quelle guerre di successione alla Jugoslavia sta nella pluralità di tempi storici al loro interno compresenti, che ricapitolano fenomeni storici tipicamente ottocenteschi (guerre per l’indipendenza “nazionale”, ossia per la costruzione di nuovi Stati), novecenteschi (eredità dei conflitti ideologici della Seconda guerra mondiale) e post-novecenteschi (conflitti di “civiltà”, ossia di religione).
Sul Kosovo la mia posizione deriva conseguentemente dal discorso fin qui fatto. Credo che la sua dichiarazione di indipendenza sia illegittima dal punto di vista formale, controproducente dal punto di vista politico, ma purtroppo del tutto organica al processo storico nei Balcani (e altrove in Europa centro-orientale). Ribadisco che la soluzione ottimale passava attraverso la rinegoziazione del legame federale tra le Repubbliche, in un quadro di democratizzazione del sistema politico: tuttavia, varie forze e contingenze hanno portato ad un intreccio sempre più stretto tra democratizzazione ed etnicizzazione della politica jugoslava, tra 1990 e 1991. Questo non può far dimenticare che c’è una differenza fondamentale tra la Bosnia-Erzegovina e Kosovo: la Bosnia-Erzegovina era legittimata a organizzare un referendum per l’indipendenza (avvenuto nel febbraio 1992 e sostenuto da una vasta partecipazione: considero illegittime le obiezioni che muovono dal fatto che la comunità serba decise di astenersi, perché il voto democratico è individuale), secondo quanto prevedeva la Costituzione jugoslava del 1974, la quale riconosceva la possibilità di secessione per le singole Repubbliche. Al contrario, il Kosovo, che era un’unità amministrativa della Repubblica jugoslava di Serbia (una sua “provincia autonoma”), non aveva il diritto di proclamare la propria indipendenza. La guerra del 1999, che rispondeva all’interesse della Nato di allargare il proprio raggio d’azione verso Est, era stata fatta per arrestare la repressione serba in Kosovo, non per creare le condizioni per l’indipendenza del Kosovo. La sola via legale per l’indipendenza del Kosovo doveva passare attraverso un referendum, organizzato su tutto il territorio della Repubblica serba, Stato di cui fino al giorno della proclamazione di indipendenza unilaterale faceva parte: l’indipendenza del Kosovo, infatti, doveva costituire l’eventuale esito della consultazione popolare, non il suo presupposto. Forse non è male ribadire, in questa sede di discussione, che la democrazia (come argomenta Bobbio) non è il puro e semplice rispetto della volontà della maggioranza, ma anche la legalità delle procedure di formazione della stessa volontà democratica, l’indipendenza reciproca dei diversi poteri, la tutela dei diritti delle minoranze, la possibilità di formazione di una maggioranza alternativa con mezzi pacifici. La politica della maggioranza albanese del Kosovo ha contraddetto tutte queste norme democratiche fondamentali nei confronti della minoranza serba, dopo la guerra del 1999, sotto il protettorato NATO. Inoltre, gli albanesi del Kosovo sono una nazione che può rivendicare il principio di autodeterminazione, oppure, con la loro indipendenza, si è aperta soltanto la via per la loro annessione all’Albania? Infine, il Kosovo risponde a quei criteri di sovranità e indipendenza che, come si diceva più sopra, devono costituire il presupposto per il riconoscimento di uno Stato oppure si sono creati i presupposti per l’esistenza di una vasta area sottratta a qualunque controllo di legalità in cui possono proliferare le criminalità organizzate di tutto il mondo?
Non credo che il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo sia il modo efficace per garantire la stabilizzazione e la democratizzazione di tutta la regione; al contrario, l’Europa e gli Stati Uniti con il Kosovo hanno perso la possibilità di cominciare a invertire tendenze storiche profonde e di impostare su basi nuove, coerenti con il processo di integrazione europea, la politica nei Balcani. Molte altre cose si potrebbero e si potranno dire: a me basta aver restituito una dimensione storica minima alle questioni di cui si discute. In questo caso, chi conosca la strada vecchia, saprà che, con la nuova, peggio non potrà andare!

lunedì 23 giugno 2008

kosovo e dintorni


Per creare un po' di massa segue riflessione filosofico-geopolitica di Gianluca su kosovo e cittadinanza.






Chi ha diritto a una terra?

1)tutti
2)"coloro per cui essa è la madrepatria"
3)chi la occupa con la forza, fintanto che la occupa con la forza

La seconda è quella più frequente oggigiorno: questa posizione asserisce che esista un gruppo di persone che ha un diritto esclusivo ad un territorio: gli "italiani" ad esempio hanno un diritto particolare ad abitare l'"Italia". Questo diritto discende dalla "storia". Le critiche alla posizione sono piuttosto note, ma non posso tralasciarle. Chi è "italiano"? Chi è nato in Italia? Chi parla italiano? Chi ha entrambi o almeno un genitore italiano (e allora cosa fa sì che quel genitore sia "italiano")? Una possibile risposta è che sia italiano chi abita in Italia "da molto tempo". Egli o ella o (tipicamente) i suoi progenitori hanno preso abitazione in Italia in un momento del passato: prima evidentemente non erano italiani se sono diventati italiani con l'atto di prendere abitazione in Italia, allora chi prende abitazione in Italia diventa italiano. se sono diventati italiani in seguito, allora quando? le soluzioni di diritto pubblico sono due: o l'italianità è una scelta soggettiva come il voto o la religione, o è uno status che viene conferito dalla comunità. ergo, o sono diventati italiani quando hanno deciso di esserlo, e allora chiunque decida di esserlo è italiano. oppure quando l'assemblea degli italiani ha (sia pure idealmente) conferito loro tale titolo; e allora l'italianità dipende da tale assemblea: ogni qualvolta si determina una maggioranza (o altro meccanismo decisionale) chiunque può essere privato dell'italianità e dei conseguenti privilegi. le prime due posizioni implicano che allorché qualcuno venga trattato differentemente da un paese in cui abita (non importa da quanto) perché non italiano, possa dichiararsi leso e adire le vie legali o immediatamente o previa "dichiarazione spontanea di italianità". la terza è un sottocaso della terza opzione sopra, per cui cioè un gruppo ha diritto ad abitare un territorio fintantoché ha la forza per farlo (nella fattispecie, forza di maggioranza assembleare). altre posizioni (di italianità "noumenica" o conferimento divino o altro) non sono verificabili/falsificabili e dunque non possono essere fondamento di diritto pubblico (azione statale, che ad es. conferisca particolari diritti agli italiani).

- ridotta la seconda posizione o alla terza o a contraddizione (non pretendo di aver convinto tutti; fatevi sotto), rimangono le altre due. la terza, evidentemente, conduce a un diritto internazionale tucidideo (nel senso del dialogo dei Meli). in tal caso, l'unico motivo per cui gli italiani hanno "diritto" di cacciare i rumeni dalla penisola è perché ci sono loro e hanno la forza per farlo; analogamente per gli israeliani in palestina, per i serbi nelle krajine e a srebrenica, per gli slavi in istria e dalmazia, per gli albanesi in kosovo. bellum omnium contra omnes. buon divertimento! inutile dire che ne è del concetto stesso di diritto delle minoranze in questo contesto. la forma base della consociazione in tal caso è l'alleanza militare basata sulla comunità d'interessi, fintanto che essi sono comuni. la soluzione è possibile, ma non è oggetto di filosofia politica. il concetto di stato si fonda sull'avocazione del monopolio della violenza legittima; tale assetto, in cui sussistono fazioni private capaci di violenza, è illegittimo per lo stato per la stessa definizione di questo, le forze di polizia, difatti, sono preposte a perseguirlo qualora esso si presenti.

- unica coerente col concetto di diritto pubblico, rimane la prima soluzione: a una terra, originariamente, hanno diritto tutti. i corollari, molto brevemente, sono: l'unica sorgente legittima di diritto internazionale è una federazione mondiale di tutti gli individui razionali; ogni diritto di proprietà ha fondamento nella volontà del sovrano di tale federazione; la forma generale della proprietà territoriale, come di ogni proprietà, è il contratto privato, individuale o collettivo; ogni pratica di esclusione territoriale non sancita dal sovrano è reato penale e come tale perseguita (corollario: in altre parole: l'unico posto che sia "casa nostra", in cui siamo "padroni" e da cui possiamo escludere altrui, è, appunto, casa nostra, sul cui possesso abbiamo un contratto privato; ogni limite all'immigrazione è immediatamente lesivo del diritto pubblico. in altre parole ancora: l'Italia non è "degli italiani" - espressione peraltro insignificante dal punto di vista del diritto pubblico - ma di chiunque abbia le risorse per acquistare una proprietà in Italia, fintanto che vuole farlo e trova un venditore).

- in breve, chiunque può vivere dove gli pare. trasferirmi in Nigeria dovrebbe essere altrettanto facile che trasferirmi a Pisa, e idem per un nigeriano. se i rom vogliono vivere in piazza duomo a Milano, trovano qualcuno che gli venda lo spazio e hanno i soldi per comprarlo, proibirlo a loro è come proibirlo a me.

- giusto per evitare obiezioni facili: e se un'etnia delinque? risposta: le etnie non delinquono. il soggetto del diritto penale è l'individuo. questo individuo viene perseguito, a prescindere dalla sua cultura, come dal colore della sua camicia di oggi.

- vale la pena notare che in questo sistema lo stato d'Israele deve la propria legittimità alla spartizione votata dall'assemblea dell'ONU nel 1947, come approssimazione sia pure imperfetta di una deliberazione di tale sovrano mondiale (il che avrebbe anche ovvie conseguenze sui suoi limiti territoriali, in cui non voglio addentrarmi).

- in questo contesto le questioni di diritto internazionale sono ridotte a questioni di ordine pubblico. il concetto stesso di maggioranza o minoranza etnica è insignificante, perché lo stato è a-nazionale così come è a-confessionale. se i serbi in Kosovo vengono disturbati dalla maggioranza albanese (o viceversa), evidentemente la polizia federale interviene militarmente per impedire che ad alcuno venga torto un capello, con tutti i mezzi necessari. è questa la fondazione filosofica di interventi come quello del KFOR: prefigurazioni di tale ordinamento internazionale, unico razionale, che evidentemente presuppone la soppressione del concetto di sovranità nazionale.

- passo ora al concreto. la prima domanda è: qual è il criterio per valutare della bontà di una certa politica in campo internazionale? risposta: la politica preferibile è quella che minimizza la violazione di diritti individuali attesa (cioè minimizza la sommatoria dei prodotti delle entità di tali violazioni per la loro probabilità). qualora la politica che garantisce tali diritti nella loro integrità, cioè la federazione mondiale, non sia alla portata, è necessario valutare le opzioni disponibili e scegliere il male minore. devo fare una breve annotazione: le obiezioni alla "non è così che si fondano gli stati" vanno prese con le pinze. se il 65% degli abitanti della Bosnia vuole staccarsi dalla Jugoslavia, SUL PIANO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE IDEALE sopra delineato, non c'è nessun controargomento di diritto possibile. se i serbi vogliono boicottare il referendum, padronissimi. la federazione mondiale di cui sopra interverrebbe per imporre la volontà della maggioranza e sedare con la forza ogni tentativo di ribellione, come ogni stato fa per far osservare le sue leggi. l'alternativa è una minoranza che impone il suo volere a una maggioranza. unico controargomento possibile è quello della forza che è intrinsecamente illegittimo. se i rapporti di forza (appunto) impongono di tenerlo in considerazione, ciò non toglie che nella valutazione della politica migliore, a parità di tutto i il resto, è preferibile (= viola meno diritti) quella che rispetta la volontà popolare espressa nel voto. in altri termini, l'avvicinarsi alla soluzione ideale sopra delineata non è semplicemente un fatto auspicabile, ma un fattore di minore violazione di diritti che quindi va tenuto in considerazione nella valutazione comparativa di una politica.

- puntualizzazione su cosa vuol dire "non violare volontà". si legge spesso che spartire la Bosnia è giusto perché non si può costringere la gente a convivere contro la loro volontà. su questo è necessario sottolineare una cosa: come visto sopra, la gente non ha diritto di disputare chi può o non può abitare in un posto a meno che su questo non abbia un diritto di proprietà privata sancito dallo stato. in altri termini, semplicemente è irrilevante se ai serbi va bene o non va bene che a Srebrenica abitino dei mussulmani (come agli italiani sui rumeni, en passant). tutto ciò che i primi possono decidere è se a loro va bene abitare coi secondi. in caso contrario, nessuno li costringe a rimanere. la rilevanza dell'indisponibilità di una parte ad accettare la convivenza con un'altra non incide sulla valutazione di una politica per ciò che riguarda la non violazione dei diritti individuali (non è mio diritto decidere chi può abitare nel mio palazzo, a meno che il palazzo sia mio; se a me sta antipatico un condomino e rompo il vetro della sua macchina, giustamente quello chiama la polizia); bensì per quanto riguarda l'eventuale incremento di "conflittualità" conseguente a tale convivenza, cioè l'incremento di violenza potenziale eccedente ciò che può essere represso dato l'impegno militare desiderato.

- svolgerò ora l'analisi prendendo in considerazione la Bosnia e il Kosovo. naturalmente la prima migliore alternativa per un territorio multietnico come la Bosnia, qualora la federazione mondiale non sia disponibile, è una federazione regionale jugoslava (autenticamente) democratica. se i rapporti di forza lo consentono, essa andava imposta con la forza - cosa che si era anche timidamente tentato di fare nel 1991. allorché ciò non fosse possibile, la Bosnia (un paese dove le località con una maggioranza etnica del 95% erano, nel 1991, non più di dieci) andava tenuta insieme con la forza. da notare che ciò non dipende da argomenti del tipo "la Bosnia non era un'entità arbitraria, aveva una sua tradizione statuale fin dal tempo dei Kotromanić": infatti si applica a qualunque entità statuale, quali le due semi-indipendenti che di fatto sono sorte dal suo frazionamento. la "non arbitrarietà" di un'entità statuale, fondandosi sulla "tradizione storica" cioè in sostanza sul principio del "da molto tempo", va soggetta alle stesse critiche dei concetti identitari quali italianità, di cui sopra. essa è rilevante per la valutazione di una politica solo nella misura in cui informa le volontà degli abitanti: se questi credono che la Bosnia non sia arbitraria e votano di conseguenza, allora il loro volere (che la Bosnia esista, poiché non è arbitraria) va tutelato (così come quello dei tanti serbi che vogliono che non esista poiché credono sia arbitraria). naturalmente, se il volere della maggioranza degli abitanti della Bosnia è che la Bosnia esista (perché "non è arbitraria", o per qualunque altra ragione) farla esistere viola meno volontà individuali che non farla esistere.

- la soluzione si trova dunque così: posto un certo livello di impegno militare desiderato da parte della comunità internazionale - miglior sostituto disponibile della federazione mondiale - essa è l'assetto che minimizza la somma delle violazioni di diritti necessarie (in termini di violazioni di volontà individuali, o ad es. di trasferimenti forzati) e della "conflittualità" conseguente (cioè, come già definito sopra, la probabilità di violenza eccedente quella che può venire repressa dato l'impegno militare desiderato).

- arriviamo al dunque. a mio parere, posta tutta la discussione sopra, l'indipendenza del Kosovo è la soluzione migliore tra quelle disponibili. infatti: rispetta la volontà del 90% della popolazione residente; minimizza la "conflittualità" come sopra definita, poiché se è vero che irrita i nazionalisti serbi e i serbi di Kosovo, è anche vero che l'alternativa della piena sovranità serba irrita il 90% di albanesi di Kosovo. la volontà di un agente non è pubblica, ma può essere valutata dagli avversari solo sulla base dei precedenti: le politiche serbe degli anni '80 e '90 rendono comprensibile tale sentimento albanese perlomeno quanto quello dei nazionalisti serbi. segnatamente, non so quanti di voi sarebbero disposti a tornare sotto la sovranità di uno stato che otto anni fa ha cercato di sterminarvi e tredici anni fa ha dato (per dire poco) una consistente mano a entità che considerava solidali (i serbi di Bosnia) per sterminare dei vostri correligionari. infine, tale soluzione rispetta il vincolo dell'impegno militare desiderato da parte della comunità internazionale. sono d'accordo anch'io che la soluzione ideale sarebbe il commissariamento ONU sempiterno del Kosovo con occupazione militare dei caschi blu, cioè il congelamento della situazione preesistente alla dichiarazione d'indipendenza. il problema è che gli stati coinvolti non sono disposti a pagarne i costi economici e politici. quindi, la conclusione segue.

- naturalmente, a differenza della discussione filosofica dell'inizio, quest'analisi è di natura empirica. in altre parole, essa dipende dalle informazioni in mio possesso e potrebbe cambiare in accordo con esse.

italia-spagna


Per quello che valgono certe riflessioni, abbiamo perso seguendo il Paese. In maniera fatalistica. Non c'era la sofferenza epica e barricadera di Italia-Olanda. Non la forza del sacrificio, ma la spocchia di pensare che tanto quando le cose vanno male alla fine la spuntiamo noi fortunosamente. E dunque facciamole andare male.
Quando anche Panucci comprende lo Zeitgeist si sta proprio raschiando il fondo.