martedì 8 luglio 2008

strade vecchie e strade nuove

Caro Gianluca, cari tutti,

rispondo nella convinzione, già espressa altrove, che la questione sollevata in realtà non sia formulata in termini corretti e, così com’è formulata, investa una molteplicità di questioni, tutte complesse e diverse tra loro, che occorre quindi distinguere. Ci provo.

A mio avviso, la questione non è tanto l’astratta legittimità del principio di autodeterminazione nazionale quale criterio fondativo delle entità statuali (salvo ammettere tutta una serie di eccezioni laddove i rapporti di forza non consentano l’esplicazione di questo principio), quanto la comprensione storica dei molteplici e complessi significati della costruzione degli Stati nazionali e del nazionalismo in Europa e le loro implicazioni politiche attuali. In via preliminare, ritengo che la filosofia politica non offra l’approccio adeguato alla comprensione della questione in tutta la sua complessità, che è anzitutto complessità storica, ossia necessità di articolare una questione specifica in diversi contesti storici. Di qui la perplessità sul tipo di classificazione – a mio avviso astratta e semplificante – che è proposta: in particolare il punto 2 mi sembra fonte di ambiguità irrisolte e al contempo cruciali per la nostra questione.

Il punto 1 esprime una posizione cosmopolita discendente dalla cultura illuminista che non può che rappresentare un ideale regolativo per il singolo individuo. Questa posizione, in generale, mi pare l’unica accettabile da un punto di vista etico per il singolo individuo: tuttavia, essendo fondata sul primato della cultura individuale, costituisce non un diritto, ma un privilegio (in questo senso, non democratico). In realtà, credo che sia più legittimo, per noi, definirci europei che cittadini del mondo: infatti, rispetto al mondo degli illuministi, il nostro mondo è diventato ben più vasto e articolato. Definirsi europei, dal mio punto di vista, non significa costruire una identità astratta e omogenea, statica ed esclusiva, ma riconoscere la varietà e la complessità della storia europea, che racchiude identità molteplici e stratificate, contraddittorie e relazionali (e spesso conflittuali): questo riconoscimento, che è la condizione di possibilità per un confronto con l’altro, che non si traduca in negazione di sé, è il fondamento di quella forma di etnocentrismo critico già teorizzata da Ernesto De Martino.

Il punto 3, invece, esprime la posizione classica del diritto internazionale, fondamento della Carta dell’Onu, per cui la forza politica che controlla il territorio di uno Stato va intesa come il rappresentante legittimo di quello Stato, a patto che ne garantisca sovranità e indipendenza. Oltre a questo principio (politico e non giuridico) che consente il riconoscimento dei governi esistenti, sovrani e indipendenti, la carta dell’Onu sancisce il principio di autodeterminazione dei popoli, fin dall’art. 1, par. 2. Tuttavia, sul concetto di popolo e sui suoi criteri di definizione (ad es. interno ed esterno), sulle condizioni di realizzabilità di questo principio ( possibilità di costituire uno stato sovrano e indipendente) e sui modi in cui interagisce con altri principi (come quello di integrità territoriale degli altri Stati) il dibattito tra i giuristi continua ad essere aperto e complesso: non ho però le competenze per seguirlo nel dettaglio.

Ora, torniamo, o meglio, avviciniamoci, invece, al punto 2. Che cosa si intende con quella che tu definisci “madrepatria”? Preliminare a questa discussione è anzitutto la distinzione teorica tra Stato moderno e Stato nazionale: nel caso dello Stato moderno, vale la definizione weberiana di potere fondato sulla rivendicazione del monopolio della violenza legittima; nel caso dello Stato nazionale, vale un principio di legittimità diverso e complementare al primo, che è l’aspirazione dello Stato a rappresentare la comunità nazionale e che si è tentato di realizzare (con esiti alterni e differenziati) attraverso gli strumenti della scuola pubblica (e, in una seconda fase, dei mezzi di comunicazione di massa come radio e televisione) e della coscrizione obbligatoria. Lo Stato moderno di diritto fonda una comunità di cittadini, che si riconoscono nella legge: da questo punto di vista, la cittadinanza è basata sul comune riconoscimento della legge, a prescindere dalle appartenenze etniche, religiose, culturali ecc… Lo Stato nazionale, che è organicamente legato al principio di sovranità popolare, invece pretende di fondare una comunità nazionale, che si immagina omogenea sotto il profilo etnico, religioso, culturale ecc. Mentre il primo concetto è inclusivo (è lo ius soli), il secondo è esclusivo (ius sanguinis). Tuttavia, tutto questo è vero soltanto dal punto di vista concettuale: infatti, gli Stati nazionali, nella loro concreta operatività storica, si sono mossi in forma contraddittoria, intrecciando i due concetti, nella definizione del criterio di cittadinanza. Questa è la contraddizione fondamentale e irrisolta di cui è stata matrice la Rivoluzione francese, racchiusa nella tensione tra la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (con la conseguente aspirazione all’esportazione della democrazia) e la proclamazione del primo Stato nazionale (con la conseguente nascita del nazionalismo): su tutto questo Hannah Arendt ha scritto pagine insuperate.

Ora proviamo a mettere meglio a fuoco che cosa è la nazione, di cui si possono dare una definizione essenzialistica (o etnicista) o una definizione costruttivista (o culturalista). Quest’ultima posizione, o meglio l’insieme delle posizioni riconducibili a questa definizione, tende ormai ad essere dominante in sede storiografica (non di rado in forme estremiste, per cui la nazione si riduce ad una pura e semplice invenzione). A mio avviso, è storicamente fondata una posizione che sia in grado di conciliare l’elemento politico costruttivo (direi addirittura rivoluzionario) della nazione con le diversità sociali e culturali concretamente determinate (e, sia pur in misura variabile, preesistenti), su cui le élites politiche hanno lavorato per costituire nuovi Stati. I processi di costruzione dello Stato nazionale tra XIX e XX secolo sono stati quanto mai complessi e diversificati di contesto in contesto; sono stati condotti da élites politiche che hanno trovato nel vocabolario e nel progetto politico fondato sulla nazione un nuovo e potente principio di legittimazione; si sono svolti in contesti in cui il grado di omogeneità culturale, la natura delle istituzioni politiche preesistenti, lo stadio di sviluppo socio-economico erano altamente differenziati. E’ indubbio che la Francia è stata il laboratorio del primo vero e proprio Stato nazionale moderno: il suo esempio ha ispirato le élites politiche otto-novecentesche in tutta Europa. Tuttavia, l’esportazione o affermazione di questo modello politico, basato sull’aspirazione all’omogeneità culturale, nei territori imperiali plurilinguistici e multireligiosi dell’Europa centro-orientale, in particolare dopo la Prima guerra mondiale, generò una catena di tensioni destabilizzanti, che rappresentò un moltiplicatore dei conflitti, almeno fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Non è possibile ovviamente ripercorrere nel dettaglio tutte quelle vicende, ma non si possono dimenticare per inquadrare quanto è avvenuto nell’ex-Jugoslavia negli anni Novanta.

Occorre, inoltre, tener presente che il senso di appartenenza nazionale in Europa occidentale ha subito profonde metamorfosi, a partire dal trauma della Seconda guerra mondiale. Il nazionalismo più aperto e aggressivo, che era stato identificato come l’origine delle esperienze fascista e nazista, fu ufficialmente bandito nel dopoguerra (per quanto sia sopravvissuto in forme meno palesi e più latenti). L’adesione emotiva alla nazione e il suo nesso organico con la coscrizione obbligatoria si sono progressivamente allentati, in un quadro se non di pace, di non guerra. Inoltre, lo Stato nazionale, perduta la volontà di essere strumento di espansione militare, è diventato erogatore di servizi e garanzie sociali che hanno costruito un nuovo senso di cittadinanza, non più basato sull’immagine (che risale alla rivoluzione francese) della nazione in armi: non a caso, l’attuale crisi della sovranità statuale è legata a doppio filo alla crisi del Welfare State. Infine, l’avvio e lo sviluppo del processo di integrazione europea ha aperto la strada ad una diversa possibilità di configurazione dei rapporti tra Stati in Europa, rispetto alla rivendicazione di una sovranità nazionale assoluta (nonostante le sue ostinate resistenze, che definiscono una nuova e più sottile forma di nazionalismo), e ad una nuova prospettiva di definizione di cittadinanza, concorrenziale rispetto a quella esclusivamente nazionale (su questa ad esempio si basa il trattato di Schengen).
La parola “Europa” ed il riferimento al processo di integrazione europea NON compaiono una volta nel tuo testo! E’ invece proprio questo nuovo livello del processo politico europeo che consente di individuare il carattere anacronistico delle politiche di carattere esclusivamente nazionale (ad esempio sull’immigrazione, questione che tenderà ad assumere un ruolo sempre più centrale nella società europea). Più in generale, il diritto all’autodeterminazione nazionale in Europa tende a farsi sempre più anacronistico, nel momento in cui è in corso un processo che, ancorché lento, faticoso e contraddittorio, tende a superare la sovranità nazionale stessa.

Indubbiamente, diverse sono state le traiettorie storiche dei paesi che si trovavano al di là della cortina di ferro. Concordo sul fatto che la soluzione ideale per l’ex-Jugoslavia (così come per l’Urss) sarebbe stata una forma di federazione democratica che conciliasse le esigenze dell’unità con il riconoscimento delle diversità, che contenesse le spinte disgregative e che impedisse tanto la diffusione dei nazionalismi quanto lo spargimento di sangue. In Urss, si è avuta la diffusione dei nazionalismi, ma non lo spargimento di sangue (salvo rare, ma significative eccezioni nel Caucaso, come il conflitto tra la Georgia e l’Abkhazia, quello tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, la Cecenia): questo forse perché, come recita un vecchio adagio marxiano, la storia una prima volta è tragedia, una seconda volta è commedia e l’Urss la tragedia l’aveva già ben conosciuta. O, più precisamente, per una serie di ragioni storiche che non è questa l’occasione per ripercorrere, ma che vanno dal ruolo di Gorbacev e Eltsin alla volontà degli Stati Uniti di tenere sotto controllo una vasta area con un potenziale atomico devastante, fino alla possibilità di contenere su scala strettamente locale le conflittualità che emergevano dallo disfacimento dello Stato sovietico e delle sue strutture federali. Invece, l’ex-Jugoslavia ha conosciuto la tragedia, proprio nel senso di un viluppo tra contraddizioni insolubili che derivavano dalla crisi della Jugoslavia post-titina e che credo fossero difficilmente governabili fin dal 1991-92 sotto la spinta di nazionalismi sempre più violenti. La responsabilità nello scoppio del conflitto e nel suo proseguimento va attribuita, secondo me, principalmente alla Serbia di Milosevic. Tuttavia, non si può dimenticare la concorrente e concomitante spinta all’estremismo nazionalista da parte di tutti gli attori in campo (soprattutto da parte della Croazia). Inoltre, va tenuto presente che, sulla base di scelte più o meno deliberate, vi sono sempre aree geopolitiche che vengono a configurarsi come lungo di confronto e di contesa tra gli interessi delle grandi potenze: i Balcani negli anni Novanta sono stati anche il teatro di “una guerra civile larvata” in cui si misurarono i rapporti di forza internazionali (qualcosa di simile alla Spagna degli anni Trenta). Infine, occorre ricordare che la complessità di quelle guerre di successione alla Jugoslavia sta nella pluralità di tempi storici al loro interno compresenti, che ricapitolano fenomeni storici tipicamente ottocenteschi (guerre per l’indipendenza “nazionale”, ossia per la costruzione di nuovi Stati), novecenteschi (eredità dei conflitti ideologici della Seconda guerra mondiale) e post-novecenteschi (conflitti di “civiltà”, ossia di religione).
Sul Kosovo la mia posizione deriva conseguentemente dal discorso fin qui fatto. Credo che la sua dichiarazione di indipendenza sia illegittima dal punto di vista formale, controproducente dal punto di vista politico, ma purtroppo del tutto organica al processo storico nei Balcani (e altrove in Europa centro-orientale). Ribadisco che la soluzione ottimale passava attraverso la rinegoziazione del legame federale tra le Repubbliche, in un quadro di democratizzazione del sistema politico: tuttavia, varie forze e contingenze hanno portato ad un intreccio sempre più stretto tra democratizzazione ed etnicizzazione della politica jugoslava, tra 1990 e 1991. Questo non può far dimenticare che c’è una differenza fondamentale tra la Bosnia-Erzegovina e Kosovo: la Bosnia-Erzegovina era legittimata a organizzare un referendum per l’indipendenza (avvenuto nel febbraio 1992 e sostenuto da una vasta partecipazione: considero illegittime le obiezioni che muovono dal fatto che la comunità serba decise di astenersi, perché il voto democratico è individuale), secondo quanto prevedeva la Costituzione jugoslava del 1974, la quale riconosceva la possibilità di secessione per le singole Repubbliche. Al contrario, il Kosovo, che era un’unità amministrativa della Repubblica jugoslava di Serbia (una sua “provincia autonoma”), non aveva il diritto di proclamare la propria indipendenza. La guerra del 1999, che rispondeva all’interesse della Nato di allargare il proprio raggio d’azione verso Est, era stata fatta per arrestare la repressione serba in Kosovo, non per creare le condizioni per l’indipendenza del Kosovo. La sola via legale per l’indipendenza del Kosovo doveva passare attraverso un referendum, organizzato su tutto il territorio della Repubblica serba, Stato di cui fino al giorno della proclamazione di indipendenza unilaterale faceva parte: l’indipendenza del Kosovo, infatti, doveva costituire l’eventuale esito della consultazione popolare, non il suo presupposto. Forse non è male ribadire, in questa sede di discussione, che la democrazia (come argomenta Bobbio) non è il puro e semplice rispetto della volontà della maggioranza, ma anche la legalità delle procedure di formazione della stessa volontà democratica, l’indipendenza reciproca dei diversi poteri, la tutela dei diritti delle minoranze, la possibilità di formazione di una maggioranza alternativa con mezzi pacifici. La politica della maggioranza albanese del Kosovo ha contraddetto tutte queste norme democratiche fondamentali nei confronti della minoranza serba, dopo la guerra del 1999, sotto il protettorato NATO. Inoltre, gli albanesi del Kosovo sono una nazione che può rivendicare il principio di autodeterminazione, oppure, con la loro indipendenza, si è aperta soltanto la via per la loro annessione all’Albania? Infine, il Kosovo risponde a quei criteri di sovranità e indipendenza che, come si diceva più sopra, devono costituire il presupposto per il riconoscimento di uno Stato oppure si sono creati i presupposti per l’esistenza di una vasta area sottratta a qualunque controllo di legalità in cui possono proliferare le criminalità organizzate di tutto il mondo?
Non credo che il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo sia il modo efficace per garantire la stabilizzazione e la democratizzazione di tutta la regione; al contrario, l’Europa e gli Stati Uniti con il Kosovo hanno perso la possibilità di cominciare a invertire tendenze storiche profonde e di impostare su basi nuove, coerenti con il processo di integrazione europea, la politica nei Balcani. Molte altre cose si potrebbero e si potranno dire: a me basta aver restituito una dimensione storica minima alle questioni di cui si discute. In questo caso, chi conosca la strada vecchia, saprà che, con la nuova, peggio non potrà andare!